Ciò che importa in tutto ciò, a mio parere, è il rapporto con la poesia dell’altro. Ogni poeta nasce, in qualche modo, in relazione con ciò che è già stato detto e che si sta dicendo e con le forme attraverso cui è stato e si sta dicendo.
Nutrirsi dell’altro da sé, cannibalizzarlo, oltre che metafora implicitamente cristiana, eucaristica direi, è decidere di stabilire con lui un rapporto compromettente, scandaloso, un rapporto in cui si decide di rinunciare al proprio punto di vista e, insieme, di riaffermarlo con estrema decisione. Nel rapporto con tradizioni e autori “forti” sarà ovviamente difficile prevedere chi infine divorerà l’altro, ma se il soggetto poeticamente attivo in questa relazione è capace di non rinunciare completamente a sé, se è capace di masticare coscienziosamente, ma spietatamente, ciò che ha deciso di mettere sotto i denti, allora forse il risultato sarà qualcosa di estremamente nuovo e “radicato”.
L’efficacia di questa “santerìa” poetica, proposta da Andrade e poi rinnovata e arricchita dai Campos è stata quella di dare nuova vita, al di fuori del ricordo o del canone accademico, a moltissime esperienze, tanto a quelle provenienti dalla cultura “alta” europea o orientale, quanto a quelle radicate nelle tradizioni popolari brasiliane. Perché Arnaut, Dante, Joyce, Hopkins, Goethe, Ungaretti, Li Po continuino a vivere, e dunque le loro macchine poetiche seguitino a produrre “senso”, occorre anche che si facciano meticci, che accettino di mescolare i pub di Dublino o i grandi fiumi orientali con le dune di Copacabana.
Non a caso, e arriviamo così ad accennare alla seconda delle questioni, i Campos sono stati dei traduttori eccezionali. Non solo perché hanno tradotto moltissimo e benissimo, ma proprio per l’importanza che hanno dato sempre alla traduzione, e cioè alla poesia dell’altro, nell’ambito della loro attività artistica.
Non temo di osare troppo se affermo che per i Campos ogni traduzione era un tentativo di esecuzione della poesia altrui: non solo di trasposizione linguistica si trattava – che, già di per sé, si porta dentro un notevole tasso di transmedialità – ma proprio del tentativo di creare un organismo nuovo, capace di risuonare, di essere “eseguibile”, in modo indiscutibilmente nuovo e inconfondibilmente medesimo.
Haroldo De Campos chiamava questa cosa “transcreazione” e credo che sia un nome ben scelto. Questo anche per dire – ancora una volta e una volta ancora in riferimento al testardo e prezioso lavoro di Rosaria Lo Russo – che non dovremmo limitarci a eseguire noi stessi, ma dovremmo impegnarci a eseguire gli altri, avendo cura di sceglierli non solo tra chi “risuona” più simile a noi, ma anzi pescando il rischio dell’assolutamente altro.
Dunque ho particolarmente apprezzato l’iniziativa degli slammer italiani che a inizio anno hanno invaso Facebook interpretandosi reciprocamente (#poetrynewyear), meno che lo abbiano fatto solo tra loro: a me una lettura di Leopardi, o Pagliarani o Dante – tanto per restare a casa nella nostra lingua e non complicare la faccenda – fatta da un giovane poeta avrebbe interessato forse più che la sua lettura del vicino di banco.
Insomma occorrerebbe non lasciare agli attori e alle loro tecniche “espressive” il monopolio dell’interpretazione dei poeti, ma farlo noi stessi, eseguendoli, appunto, e non tentando di trasformare quell’atto artistico in una “didassi dei contenuti attraverso la giusta espressione”: la prima maniera di comprendere una poesia è coglierne il ritmo. Eseguirla è un atto di conoscenza indispensabile. Parole uguali, a ritmi diversi, dicono cose differenti, a volte assolutamente differenti.
Da questo punto di vista, la traduzione non è che un’esecuzione “silenziosa” dell’altro, un atto di amore totale che nasce dalla coscienza che non esiste mai una poesia da sola, in se stessa, essa esiste solo in relazione con le altre, con quelle che le sono contemporanee, con quelle che l’hanno preceduta e – augurabilmente – con quelle che verranno dopo di lei.